giovedì 19 aprile 2012

UN'AGGIUNTA SUL "PINOCCHIO" DI COMENCINI


"Riceviamo e volentieri pubblichiamo" è la classica formula con cui vengono ospitati volontari interventi di approfondimento sulle varie tematiche poste all'attenzione dei lettori sia della carta stampata che- come in questo caso - del web. Effettivamente, la nostra rievocazione del Pinocchio televisivo di Comencini a 40 anni dalla prima trasmissione ha suscitato profondo interesse, non soltanto di natura nostalgica, ma anche in un contesto più analitico - critico. E proprio in tale àmbito va considerato quanto scritto su Facebook, all'interno della pagina di un gruppo che celebra meritatamente tutti gli sceneggiati trasmessi dalla RAI (tanto le produzioni interne che quelle importate dall'estero), dal musicista napoletano Christian Luongo, che ringraziamo sin d'ora per averci dato il permesso di divulgare anche in questa sede il proprio approfondito commento, ricco di spunti riflessivi.
I post tradizionali del Focolare torneranno nel corso del fine-settimana.
Buona lettura e... a prestissimo ! ! !
CBNeas

 Classificato come "sceneggiato" laddove, a mio giudizio almeno, si dovrebbe parlare, più correttamente, di "film per la televisione" anche perchè dal lungometraggio tradizionale mutua moltissime peculiarità sue proprie come, ad esempio, la fotografia ed il montaggio e, d'altro canto, la presenza di Nino Baragli - la quintessenza della "rimessa in costruzione" dell'analisi logica della cinematografia italiana - è lì ad attestarcelo. Direi di partire dall'assunto che, con le "avventure di Pinocchio" ci troviamo di fronte ad uno dei prodotti più belli, in senso lato, di tutta la produzione della televisione pubblica nel corso di oltre mezzo secolo di storia ; e la Rai di produzioni di altissima qualità ne ha fatta tantissima onde per cui annoverarla fra quelle più belle non è niente affatto scontato e riduttivo - anzi è, esattamente, l'opposto - non solo per la qualità intrinseca della riduzione cinematografica ma, vieppiù, per l'oggettiva difficoltà cui una riduzione del genere andava incontro perchè la lettura e la interpretazione di Comencini è stata, al contempo, fedelissima e rivoluzionaria.

 Comencini era un massone - ovvero, quanto meno, a conoscenza di tanta simbologia massonica - e nel lungometraggio ha lasciato, sporadicamente, tutta una serie di indizi nitidi a coloro in grado di poterli leggere quasi a voler rasserenare chi di dovere della consapevolezza profonda del vero senso escatologico dell'opera collodiana giacchè Pinocchio resta, nelle intenzioni dell'autore, una allegorica iniziazione massonica e di questo aspetto, appunto, il cineasta ne era, come detto dianzi, conscio.
Ma la lettura del regista è, al contempo, assolutamente rivoluzionaria vuoi per esigenze specificamente tecniche - l'impossibilità, per intenderci, di far recitare un burattino di legno per l'intera durata del lungometraggio in una epoca nella quale l'ausilio della computer grafica era una chimera protofantascientifica che lo "obbliga", così, a cambiare la sceneggiatura del racconto inducendo, sin dalla prima puntata, una reiterata metamorfizzazione del burattino in bambino - vuoi per intime convinzioni sue proprie che si sposano ad una lettura quasi neorealista della favola collodiana per cui, sospesi in un equilibrio precario, la storia oscilla, simultanamente, su due piani assolutamente dialettici e stridenti ovvero uno specificatamente trascendente ed un altro assolutamente immanente la cui sintesi sarà, allegoricamente, rappresentata dalla definitiva abiura del burattino nel ventre della balena (o del pescecane come sottolinea Manfredi...) operata, vero, dalla fata turchina ma indotta espressamente da Geppetto che si inserisce - un'altra chiave di lettura - prepotentemente nella economia della storia.
Queste molteplici chiavi di lettura e di riduzione scenografica operate da Comencini rispondevano, espressamente, ad una serie di profondissime convinzioni del cineasta la cui formazione nell'Italia del dopoguerra, all'ombra dei grandi maestri della cinematografia italiana neorealista, non poteva, per così dire, restando in un cantuccio a latere della macchina da presa, eclissarsi : tutt'altro !


Il primo sguardo "neorealista" che si impone nella produzione comenciniana concerne proprio il personaggio di Lucignolo affidato ad un ragazzo di borgata romano - Domenico Santoro - che il regista aveva conosciuto, personalmente, nel corso della realizzazione di alcuni cortometraggi di taglio spiccatamente documentaristico inerente il lavoro minorile ed il precariato di quello che, oggi, definiremmo come sottoproletariato urbano ma che, in quegli anni, era ancora inquadrato, anche politicamente, come proletariato tout-court generando una serie di distonie e di confusioni, anche semantiche, grossolane dalle quali, per alcuni versi, molta di quella che viene arbitrariamente definita intellighenzia italica ancora non ha preso le distanze.
Lucignolo è, nella rilettura della favola collodiana, un ragazzo difficile con una famiglia assolutamente disastrata alle spalle, abbandonato a sè stesso e vittima della violenza gratuita che il padre esercita, arbitrariamente, su di lui e, presumibilmente, anche sulla madre quando la sera, al termine di una infame giornata di lavoro, si ubriaca maledettamente estrinsecando il lato oscuro suo proprio.
Certo questa interpretazione non è nitidamente percepibile di primo acchito eppure, ascoltando con estrema attenzione lo svolgimento dei dialoghi, emerge distintamente disegnando un quadro assolutamente desolante di quello che è l'entourage di Lucignolo e che, molto probabilmente, rifletteva se non la situazione sua propria - di Domenico Santoro, intendo - quella di molti ragazzi borgatari capitolini dei primi anni settanta. Lucignolo è, dunque, un ragazzo difficile, un emarginato ; ma la visione comenciniana, romantica, lo ammanta di un pathos miltoniano alla stregua di un eroe tragico e questa sua intuizione, indovinatissima, conferisce uno spessore altrimenti assente al personaggio collodiano ma questa connotazione lungi dallo snaturarlo sembra, per converso, essere una qual sorta di fisiologico sviluppo della primigenia visione collodiana quasi come se il Lorenzini (il vero nome di Collodi n.d.r.) non avesse avuto il tempo necessario per tratteggiarne, appieno, le sfumature.
Lucignolo, quindi, rappresenta, ad un tempo, una peculiare chiave di lettura comenciniana assolutamente rivoluzionaria - assente, infatti, nel romanzo originario - ma, al contempo, assolutamente canonica e complementare con lo spirito dello scrittore fiorentino.


E questa schizofrenica chiave di volta la individuiamo, ancor più chiaramente, proprio nella figura di Geppetto per il quale, per inciso, il regista aveva pensato, in un primo tempo, a Vittorio Gassman salvo poi, su indicazione del celeberrimo mattatore, dirottare la propria scelta verso un attore più "dimesso" come Manfredi proprio perchè la preponderanza scenica di Gassman avrebbe seriamente inficiato la realizzazione del lungometraggio che, a quel punto, avrebbe potuto anche chiamarsi "Le avventure di Geppetto" (come, si sussurra, ebbe a dire lo stesso Gassman a Comencini quando fu, da questi, contattato).
Ma il "modus recitandi" manfrediano era indispensabile - e si dimostrò, a conti fatti, indovinatissimo - perchè, attraverso Geppetto, Comencini riesce a spostare la macchina da presa e ad incastonare il lungometraggio su un'altra chiave di lettura incardinata sul rapporto padre-figlio assolutamente, o quasi, latitante nella stesura del romanzo anche se, ad onor del vero, per quanto eterodossa anch'essa poteva essere una "fisiologica consequenzialità" della primigenia stesura del racconto da parte del Lorenzini riecheggiando, dunque, quanto era già successo proprio con Lucignolo.
Il rapporto padre-figlio si innesta su quello madre-figlio (quello, cioè, della fata turchina nei confronti di Pinocchio) e si pone su un piano, qualitativamente, diverso rasentando il sublime perchè, per molti versi, rappresenta la quintessenza stessa dell'amore in quanto che a differenza della fata turchina, la cui benevolenza nei confronti del burattino è sempre condizionata al comportamento del ragazzo, l'amore di Geppetto è, sin dall'inizio, assolutamente totalizzante ed incondizionato ed il continuo rimando alla frase "sibillina", reiteratamente riproposta nel corso di tutto il lungometraggio, "L'ho fatto io" - riferendosi, da un lato, alla manifattura del burattino, certo, ma con chiare allusioni a qualcosa che andava ben oltre la semplice realizzazione artigianale di un, per l'appunto, mero manufatto - è la espressione, antitetica e per nulla dialettica, di una frapposizione, paterna, affatto diversa che stride, maledettamente, con quella materna ; e questo contrasto, soffuso ma presente nel corso di tutta l'opera, esplode fragorosamente al termine delle continue metamorfizzazioni del burattino che lascia alle spalle, una volta per tutte, il proprio "feticcio" nel ventre della balena a seguito, non a caso, degli strali lanciati all'indirizzo della fata proprio da Geppetto che la accusa, ad alta voce, di essere una megera.
Alla fin fine, dunque, è proprio l'amore, immenso, del padre verso il figlio che indurrà la fata turchina a scindere, definitivamente, Pinocchio dal proprio alter-ego inanimato ed a trasformarlo, finalmente, in un bambino vero.
E questa chiave di lettura comenciniana è meravigliosa !
O, almeno, è quello che io penso.

Grazie mille ! ! !

Christian Luongo

 

Nessun commento: